Non sono giorni sereni per Mister Sergio “Maglioncino” Marchionne & Co: dopo il fragoroso caso Dieselgate della Volkswagen nel 2015, sembra sia arrivato il turno di pagare dazio anche per FCA. L’accusa viene sempre dall’EPA, l’ente per la salvaguardia ambientale degli States, secondo la quale 103.828 autovetture vendute sul mercato americano (Dodge Ram e Jeep Grand Cherokee dotate del 3.0 V6 Turbodiesel) avrebbero “dati di emissione falsati”. In prima battuta quindi, i casi Vag ed FCA sembrerebbero simili, giusto? Niente di più sbagliato, i distinguo sono numerosi e assolutamente non banali.

Il caso Volkswagen

La Volkswagen fu accusata di aver dotato alcuni suoi TDI (500.000 negli USA, si presume 11 milioni a livello globale tra Volkswagen, Audi, Seat e Skoda), di un software in grado di riconoscere un test di emissioni e di variare i parametri di gestione del motore in modo da superare senza problemi la prova. Questo software si disattivava poi durante il normale utilizzo, facendo emettere alla macchina una quantità di NOx (ossidi di azoto, tra i responsabili dell’acidificazione delle piogge e potenzialmente cancerogeni) fino a 40 volte superiore ai limiti di legge. La pesantissima accusa ha avuto risvolti civili e penali, su tutti l’arresto risalente a pochi giorni fa, del Manager Volkswagen negli Stati Uniti, Oliver Schmidt. La Volkswagen ha comunque ammesso la sua colpevolezza e ha fatto fronte ai quasi 20 miliardi di dollari  di multa (civile, ambientale e penale) patteggiati, in luogo dei 45 previsti inizialmente. E per i proprietari delle automobili incriminate? In Europa c’è stato un richiamo gratuito per aggiornare i software “truffaldini”, mentre negli States, oltre all’aggiornamento, è stato garantito anche un rimborso compreso tra i 5.100 e i 9.850 dollari pro capite a seconda del modello.

Il caso FCA

Salvo sorprese in questi giorni, l’accusa mossa al gruppo italo-americano sembra più lieve rispetto a quella ai danni di Volkswagen. In questo caso si parla di un vizio di trasparanza, in particolare una violazione della legge federale sulle emissioni (la Clean Air Act): nelle fasi pre-omologative antecedenti all’emission-test, la FCA è accusata di non aver comunicato che il software della centralina di gestione motore, in determinate condizioni climatiche e/o di stress dello stesso, può temporaneamente far innalzare i valori di emissioni per scongiurare possibili danni meccanici. Per ora quindi, la violazione non avrà conseguenze penali, ma solo di carattere amministrativo; l’EPA tuttavia si dichiara ancora al lavoro per verificare che questi software non agiscano anche in mala fede e non è escluso che la situazione possa farsi più “piccante” per FCA. Il gruppo ha prontamente risposto con un trafiletto: “I nostri motori diesel hanno un hardware di controllo delle emissioni all’avanguardia, compreso il sistema di riduzione catalitica SCR. Ogni costruttore deve realizzare un equilibrio tra prescrizioni Epa relative al controllo di emissioni di ossidi di azoto e la necessità di rispondere a precisi requisiti di durata, prestazioni, sicurezza e contenimento dei consumi”. Come ribadito, i modelli incriminati sono 103.828, costituiti da Dodge Ram 1500 e Jeep Grand Cherokee dotati del 3.0 V6 di provenienza VM (prodotti tra il 2014 e il 2016), venduti nei soli USA (sono quindi esclusi modelli. Per quanto riguarda la sanzione prevista, si parla di una multa massima che potrebbe raggiungere i 4,64 miliardi di dollari, salvo patteggiamenti o svolte processuali, che come detto, non possono essere ancora escluse.

Dieselgate: le differenze tra il caso FCA e quello Volkswagen

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